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La favola dei piani individuali di risparmio

Da IDEA – Settembre 2019

A due anni e mezzo dal lancio dei Pir il vento è cambiato piuttosto repentinamente. Da inizio anno a fine luglio si sono registrati riscatti per 501,52 milioni di euro. È più consigliabile la massima diversificazione a livello globale.

Una sigla che incuriosisce così come i fattori di apparente vantaggio per i piccoli risparmiatori: i Piani individuali di risparmio, detti anche Pir, considerati la nuova frontiera degli investimenti.
È una favola, non proprio a lieto fine, che ha bisogno per essere “riletta” con lucidità della professionalità di Sergio Contegiacomo, “financial advisor” di “Allianz Bank”.

«I piani individuali di risparmio sono stati introdotti e istituiti in Italia con la legge 632 del dicembre 2016 prevedendo l’esenzione fiscale sui guadagni se l’investimento viene mantenuto per 5 anni. L’obiettivo, meritorio nelle intenzioni del legislatore, era quello di indirizzare il risparmio verso le piccole e medie imprese italiane, più specificatamente 140.000 aziende che occupano l’80 per cento della forza lavoro nazionale». «Tra il 2017 e il 2018, occorre ricordare, i Pir hanno avuto un “boom” e hanno raccolto 15 miliardi di euro portando 500.000 risparmiatori ad affacciarsi per la prima volta al mondo del risparmio gestito. L’inattesa quantità di denaro affluita non ha, però, trovato un’offerta sufficiente su cui investire. Vista, poi, la scarsità di piccole e medie imprese quotate a Piazza affari (si pensi che soltanto 225 piccole e medie imprese oggi sono quotate in Borsa) e la loro elevata volatilità, ciò ha indotto i gestori a rivolgersi alle “mid cap”, società quotate in Borsa la cui capitalizzazione è compresa tra un minimo di 2 e un massimo di 10 miliardi di dollari. Tra queste, non possiamo non sottolinearlo, si trovano anche banche in difficoltà e società finanziarie. Domandarsi perché appare un quesito legittimo». Nell’incantesimo però qualcosa si è rotto…

«Sì, è così. Secondo i dati di Bankitalia i Pir hanno investito il 48% della raccolta in titoli finanziari, ma solo l’1,6% è arrivato alle piccole medie imprese! E aggiungo che a due anni e mezzo dal lancio dei Piani individuali di risparmio il vento è cambiato anche repentinamente. Da inizio anno a fine luglio si sono registrati riscatti per 501,52 milioni di euro (fonte “Il Sole-24 ore” del 7 settembre 2019)».

 

Perché, secondo lei, questa brusca fermata?

«Le mie considerazioni si fondano su facili e semplici analisi, frutto della mia esperienza in questi 28 anni di attività. Scegliere un investimento pensando solo alle sue implicazioni fiscali è un grave errore. Sebbene l’ottimizzazione fiscale di un portafoglio sia un fattore importante, essa viene dopo la valutazione della coerenza della strategia con gli obiettivi dell’investitore. Invece di lavorare sulla strategia molti investitori si sono buttati sul prodotto attratti dalla moda e dal “luccicchio del vantaggio fiscale”. I Pir possono includere azioni, obbligazioni e fondi comuni: unica condizione, il 70% dell’investimento dev’essere fatto in strumenti finanziari emessi da aziende italiane. Per godere dei benefici fiscali dei Pir (esenzione fiscale sull’eventuale “capital gain” se il piano è mantenuto per almeno 5 anni) si possono investire sino 30.000 euro all’anno a codice fiscale per 5 anni consecutivi per un massimo di 150.000 euro a persona. Nessuno, però, si è posto il quesito più elementare: ma se dopo 5 anni il Pir fosse in perdita? Può sembrare banale, ma è sempre bene ricordare che i benefìci fiscali sui potenziali guadagni potrebbero non bastare a consolare il sottoscrittore in caso di incertezza dei listini nei prossimi tre anni quando sarà decorso il periodo minimo di 5 anni dal lancio dei Pir necessario per godere della ipotetica “grazia fiscale”. Inoltre la capitalizzazione del mercato azionario italiano su scala mondiale è pari all’1 per cento. E dunque, a maggior ragione, il cittadino italiano che ha casa, lavoro e azienda nel nostro Paese dovrebbe diversificare oltre confine. Per questo motivo bisognava limitare al minimo gli investimenti sull’Italia senza farsi abbagliare dal vantaggio fiscale».

 

L’estero garantisce maggiore diversificazione, efficienza finanziaria ed opportunità di rendimento?

«Basta dare un’occhiata ai grafici. Le immagini dicono più di mille parole. Il mondo, l’Europa hanno più opportunità dell’Italia è un dato di fatto peraltro evidente agli occhi di tutti. E, aggiungo, il mondo cresce al 3- 4 per cento all’anno, mentre l’Italia invece è “ferma” da anni (l’andamento dell’indice Ftse Mib negli ultimi due anni è emblematico: il 4 settembre del 2017 valeva 21.790,60; mentre il 4 settembre di quest’anno 21.740,80). Provocatoriamente, aggiungo, non è forse meglio investire nel “mondo spa” che nell’“Italia spa”? E ancora: non è forse meglio pagare il 26% su utili veri e reali piuttosto che godere di una virtuale esenzione fiscale su presunti ed ipotetici guadagni finanziari? Alla base di un buon investimento c’è una sola regola: diversificare. Io sono convinto che con i Pir non ci sia stata molta attenzione alla propensione al rischio del risparmiatore. E, aggiungo, lo scopo di questo strumento è abbastanza evidente: far arrivare soldi alle piccole aziende italiane che hanno problemi a capitalizzarsi. La domanda che però sorge spontanea e che spesso rigiro ai miei clienti è: hai tutta questa voglia di impiegare i tuoi soldi su piccole aziende di un mercato piccolo come quello domestico? Perché, forse non è poi così risaputo, non parliamo delle aziende “top” dell’indice della Borsa, che comunque, a livello mondiale, occupano un posto marginale sui mercati azionari, bensì di aziende che spesso fatturano a stento decine di milioni ogni anno e sono esposte, più di altre, a rischi. Io, professionalmente e personalmente, preferisco indicare al mio cliente una via più etica. Penso che non, se non hai degli obiettivi finanziari e cerchi solo il rendimento, sia più opportuno fare marcia indietro e cominciare dal definire come e perché desideri investire».

 

E sul fronte degli oneri?

«Ci potrebbero essere delle spese di sottoscrizione e di gestione, ma anche di “performance”. Pertanto è meglio confrontare l’ipotetico vantaggio fiscale con i costi sostenuti per accedere al Pir, considerando anche che per cinque anni, se si volesse godere dell’eventuale beneficio fiscale, il denaro sarebbe vincolato al piano».

Qual è allora, alla luce delle criticità, la strategia che metterebbe in campo?

«Io mi baso sempre sulle necessità del cliente che a me si rivolge. Concordo e pianifico un piano su misura, mai standardizzato, che però si basa sulle mie competenze e sui miei valori che ritengo negli anni abbiano dato buone soddisfazioni. Personalmente tendo a consigliare il lungo periodo una massima diversificazione a livello globale. Ricordo e ribadisco che l’Italia vale solo l’1% del mercato azionario mondiale, l’idea di scegliere un prodotto che insiste soltanto sulle piccole aziende del mio Paese non convince sino in fondo e ritengo che negli investimenti, nell’allocazione dei propri risparmi, non possa valere alcuna ragione patriottica»

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